Quand'ero piccolo c'erano in giro per
il paesello piccoli negozietti, empori di merce ammassata che
servivano i beni di prima necessità ad ogni singolo rione. E
solitamente avevano nomi umani, che riportavano alla mera proprietà
dell'esercizio: si chiamavano Angelina, o Nenetta, o Margherita, o
ancora nomignoli, per di più soprannomi. Ci si conosceva tutti, la
salumaia, che era anche cassiera e addetta alle pulizie, chiamava per
nome i clienti e sovente capitava che la mamma telefonava, ordinava e
magari io passavo solo a prendere la spesa. Poi vennero i
supermarket, più forniti, col personale in divisa, e iniziarono a
chiudersi le bottegucce. E con essi le prime raccolte punti, e i
carrelli, e le offerte. E già la poesia di andare, incontrare,
parlare, iniziava a latitare. L'altro giorno mi han portato a fare
una passeggiata in un ipermercato. Stipati come sardine in una
scatola di latta abbacinante una domenica di carnevale. La gente
sorrideva e spendeva, abbagliata dalle lucine, i bambini vestiti a
maschera strisciavano tra i coriandoli per terra e urlavano, falsi
brasiliani si producevano in falsi samba, e non mi son mai sentito
così solo, e c'erano migliaia di persone. Ho preso il ricordo
atavico degli odori del piccolo alimentari della mia infanzia e l'ho
stretto a me come ossigeno per non impazzire, mi son lasciato la
bolgia festante e spendente alle spalle. Mezzora di centro
commerciale e poi la fuga, l'aria. Non so come può essere l'inferno,
ma credo di esser sopravvissuto alla cosa che più gli somiglia.
Mancano solo i codici a barre per i clienti. Ma ci stiamo lavorando.
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