domenica 31 marzo 2013
Il mattino
venerdì 29 marzo 2013
predicare e ruzzolare
E' la stagnante e assurda voglia di
essere felici che talvolta ci impedisce, posizionandoci due fette di
bresaola davanti agli occhi, di accorgerci che lo siamo già. E'
pateticamente stupida la razza umana, noncurante del giro di boa alle
montagne russe che la storia ci sta facendo passare attraverso, si
perde dietro l'ultimo spot, o al penultimo centro commerciale, o alla
terzultima macchina da comprare ed esibire in comodi bollettini
postali, o al quartultimo salone di bellezza, e non ci si accorge che
tutto va mutando. E' ci si indossa comodi e griffati abiti di
sopravvivenza, s'aspetta un dio qualsiasi che stenta ad arrivare, ci
si cosparge il capo di cenere, e poi si passa il ddt sui profughi
della guerra del petrolio, e ci si nutre di paure o si fa finta. E
dio, o chi ne fa le veci, ci osserva come si guardano i programmi di
Ferrara, e si schifa perennemente. Ma se ci fece a sua immagine, c'è
qualcosa che non quadra, forse un virus, oppure un trojan. E la corsa
alla sopravvivenza e all'approvvigionamento ci impedisce di pensar
comune, l'ego prende il sopravvento e ci si barcamena per sentieri a
cercare di evitare le miserie umane. E miseri, a spirale ruzzoliamo,
come pietre rotolanti, ed è difficile distinguere un sorriso da una
rèclame di dentifrici. E andremo a letto dopo Carosello quando lo
decideremo noi, non Carosello. E quando non è voglia d'essere
felici, è la paura ad apparire. E la stagnante e assurda paura di
essere felici speriamo solo termini giusto un istante prima di
toccare il fondo. Giusto un millimetro.
© salvatore digennaro
lunedì 25 marzo 2013
La ragione del viaggio
Si viaggia per andare a
studiar fuori, o per lavoro, si viaggia per raggiungere il proprio
bene, o per andare a farsi curare, si viaggia per scoprire posti
nuovi o per sparire da posti vecchi. Si viaggia a 1000 all'ora a fari
spenti nella notte, e lo si fa a uno all'ora colle pupille attaccate
al parabrezza. Si viaggia guardando fuori dal finestrino e ogni tanto
cambiando il fuoco ci si guarda attraverso gli strati di polvere, e
ci si parla. Si viaggia per cercare motivazioni e si smette spesso di
viaggiare dietro i sogni, troppo spesso. Si viaggia per fughe, per
ideali, per turismo, per affari, per manie di grandezza e perchè non
si aveva niente da fare. Si viaggia per dire, per fare e per baciare,
si viaggia per continuare a baciare. Si viaggia in fondo soli o in
compagnia di un'idea o di una dea. Si viaggia nella rete e nelle reti
a volte si cade. Si viaggia quando bisogna lasciarsi dietro i
problemi, e lo si fa per andare a cercarli. Si viaggia con la mente,
molto, troppo, e talvolta ci si aiuta a farlo. Si viaggia stando
fermi al capolinea, diventando capolinea. Si viaggia per necessità o
per fortuna, o per sfortuna. Si viaggia per amore o per non morire o
per morire. Si viaggia per cercare un posto dove stare e lo si fa
perchè il posto c'è e non lo si vuole accettare. Si viaggia perchè
si è stanchi di star fermi e lo si fa per stato di necessità. Si
viaggia per leggere da soli, per stare un po da soli e per origliare
un poco. Si viaggia per trovare sempre un motivo per viaggiare. Si
viaggia per viaggiare.
© salvatore digennaro
giovedì 14 marzo 2013
L'ipermercato
Quand'ero piccolo c'erano in giro per
il paesello piccoli negozietti, empori di merce ammassata che
servivano i beni di prima necessità ad ogni singolo rione. E
solitamente avevano nomi umani, che riportavano alla mera proprietà
dell'esercizio: si chiamavano Angelina, o Nenetta, o Margherita, o
ancora nomignoli, per di più soprannomi. Ci si conosceva tutti, la
salumaia, che era anche cassiera e addetta alle pulizie, chiamava per
nome i clienti e sovente capitava che la mamma telefonava, ordinava e
magari io passavo solo a prendere la spesa. Poi vennero i
supermarket, più forniti, col personale in divisa, e iniziarono a
chiudersi le bottegucce. E con essi le prime raccolte punti, e i
carrelli, e le offerte. E già la poesia di andare, incontrare,
parlare, iniziava a latitare. L'altro giorno mi han portato a fare
una passeggiata in un ipermercato. Stipati come sardine in una
scatola di latta abbacinante una domenica di carnevale. La gente
sorrideva e spendeva, abbagliata dalle lucine, i bambini vestiti a
maschera strisciavano tra i coriandoli per terra e urlavano, falsi
brasiliani si producevano in falsi samba, e non mi son mai sentito
così solo, e c'erano migliaia di persone. Ho preso il ricordo
atavico degli odori del piccolo alimentari della mia infanzia e l'ho
stretto a me come ossigeno per non impazzire, mi son lasciato la
bolgia festante e spendente alle spalle. Mezzora di centro
commerciale e poi la fuga, l'aria. Non so come può essere l'inferno,
ma credo di esser sopravvissuto alla cosa che più gli somiglia.
Mancano solo i codici a barre per i clienti. Ma ci stiamo lavorando.
© salvatore digennaro
mercoledì 13 marzo 2013
Amarcord
E
alla fine si metteva su un vinile e ci si lasciava andare alla musica
per 23 minuti, tanto durava un lato più o meno, ci si lasciava
attraversare dalle note finché terminati i solchi, la puntina
graffiava e griffava il 33 giri, ruvidamente, fino all'etichetta,
fin quando meccanicamente ritornava al posto, il piatto si fermava e
cominciava la spasmodica attesa d'un volontario che girasse il disco,
facesse ripartire il viaggio, per manco mezzora di preghiera laica.
Poi arrivò il cd, poi l'mp3, e la poesia s'arenò. Il telecomando
aveva otto tastini con i numeri, il volume, la luminosità, il
contrasto, il colore, il tasto verde per il mute e quello rosso che
spegneva, e s'accendeva con un numero qualsiasi, che non lo era quasi
mai qualsiasi, e a parte qualche partita, qualche film, qualche
cartone o qualche programma illuminato, od il tg o i telefilm, e di
mondezza ce n'era ancora poca. Poi arrivò il televideo, e poi le De
Filippi varie e poi ancora il digitale, terrestre e extraterreste, ed
anche li, ammesso ce ne fosse, la poesia finì. E per sentire una
ragazza, e magari uscirci, dovevi chiamarla a casa, da casa tua o dal
telefono a gettoni o a scheda, e magari riattaccavi se ti
rispondevano la mamma o il padre, o assoldavi un amica per chiamarla
e poi te la facevi passare. E se poi ci si vedeva, era una
meraviglia andar per campi, e, senza nessuno che potesse disturbarti,
magari col freddo di dicembre e l'afa di agosto del tipo “o sauna o
zanzare”, respirar poesia. Ma poi arrivarono i telefonini, e il
web, e i social network, e la cyberpoesia non ha la stessa intensità,
e soprattutto sul piu' bello qualcuno mandato dagli dei a romperti i
coglioni all'improvviso tecnologicamente appare, qualcosa squilla o
trilla. Manco un attimo da soli, da solo, a dettare i tempi solo tuoi
o forse “Sei solo. Non lo sa nessuno. Taci e fingi” , come diceva
il buon Pessoa.
© salvatore digennaro
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