domenica 31 marzo 2013

Il mattino




Stamane un vecchietto dalla faccia simpatica e dal peso degli anni appoggiato a un bastone, mi ha attraversato la strada, sulle strisce pedonali, alla velocità di 100 millimetri all'ora. Reduce da un risveglio non proprio felice, causa cantiere perenne di fronte alla mia camera da letto, ho sbottato un po', ma riflettendoci, ho sorriso all'arzillo vegliardo, immaginandomi la sua storia. Un ripetuto e fastidiosissimo indugiare di clacson alle mie spalle mi ha riportato alla realtà caotica. Ho tirato fuori il braccio dal finestrino e ho consigliato a gesti all'automobilista che mi seguiva un attimo di pazienza. L'Einstein in SUV, di contro ha riclacsonato, ho ripetuto il gesto con pazienza. Anche io avevo fretta, ma il rispetto per una persona in difficoltà, che attraversava la via, mandava in second'ordine tutto. O quasi. Il simpatico spicchio di sterco continuava a suonare. Sono uscito dall'auto e mi sono avvicinato al suo finestrino, cercando di dirgli di avere pazienza perchè c'era il nonno, che poteva essere suo nonno, che attraversava. L'ebete griffato ed abbronzato, viso da buonpartito tanto caro alle famiglie autoctone tardoborghesi, ha inveito in dialetto, dicendo: “buttalo sotto, sto vecchio di merda!”. Ho avuto un impeto di rabbia, ho raggiunto il portabagagli della mia vettura, con la voglia di prendere il cric, e provvedere alla cura del sorriso del simpaticone laccato. Invece ho preso un numero arretrato de “IL RESTO”, giornale dove scrivevo una volta, che era lì per caso, gliel'ho porto gentilmente, sussurrandogli una frase di Carl William Brown.”Tieni, leggi, l'universo non sa neppure che esisti, quindi rilassati.”; senza neppure guardare il suo volto, mi son rimesso al volante. Il sorriso del nonnetto che aveva raggiunto il marciapiede, m'ha fatto ritornare in me. Son ripartito. Devo ricordarmi di passare da un gommista: se mi capita di forare, non so come tirar su la macchina.

© salvatore digennaro


venerdì 29 marzo 2013

predicare e ruzzolare


E' la stagnante e assurda voglia di essere felici che talvolta ci impedisce, posizionandoci due fette di bresaola davanti agli occhi, di accorgerci che lo siamo già. E' pateticamente stupida la razza umana, noncurante del giro di boa alle montagne russe che la storia ci sta facendo passare attraverso, si perde dietro l'ultimo spot, o al penultimo centro commerciale, o alla terzultima macchina da comprare ed esibire in comodi bollettini postali, o al quartultimo salone di bellezza, e non ci si accorge che tutto va mutando. E' ci si indossa comodi e griffati abiti di sopravvivenza, s'aspetta un dio qualsiasi che stenta ad arrivare, ci si cosparge il capo di cenere, e poi si passa il ddt sui profughi della guerra del petrolio, e ci si nutre di paure o si fa finta. E dio, o chi ne fa le veci, ci osserva come si guardano i programmi di Ferrara, e si schifa perennemente. Ma se ci fece a sua immagine, c'è qualcosa che non quadra, forse un virus, oppure un trojan. E la corsa alla sopravvivenza e all'approvvigionamento ci impedisce di pensar comune, l'ego prende il sopravvento e ci si barcamena per sentieri a cercare di evitare le miserie umane. E miseri, a spirale ruzzoliamo, come pietre rotolanti, ed è difficile distinguere un sorriso da una rèclame di dentifrici. E andremo a letto dopo Carosello quando lo decideremo noi, non Carosello. E quando non è voglia d'essere felici, è la paura ad apparire. E la stagnante e assurda paura di essere felici speriamo solo termini giusto un istante prima di toccare il fondo. Giusto un millimetro.

© salvatore digennaro


lunedì 25 marzo 2013

La ragione del viaggio


Si viaggia per andare a studiar fuori, o per lavoro, si viaggia per raggiungere il proprio bene, o per andare a farsi curare, si viaggia per scoprire posti nuovi o per sparire da posti vecchi. Si viaggia a 1000 all'ora a fari spenti nella notte, e lo si fa a uno all'ora colle pupille attaccate al parabrezza. Si viaggia guardando fuori dal finestrino e ogni tanto cambiando il fuoco ci si guarda attraverso gli strati di polvere, e ci si parla. Si viaggia per cercare motivazioni e si smette spesso di viaggiare dietro i sogni, troppo spesso. Si viaggia per fughe, per ideali, per turismo, per affari, per manie di grandezza e perchè non si aveva niente da fare. Si viaggia per dire, per fare e per baciare, si viaggia per continuare a baciare. Si viaggia in fondo soli o in compagnia di un'idea o di una dea. Si viaggia nella rete e nelle reti a volte si cade. Si viaggia quando bisogna lasciarsi dietro i problemi, e lo si fa per andare a cercarli. Si viaggia con la mente, molto, troppo, e talvolta ci si aiuta a farlo. Si viaggia stando fermi al capolinea, diventando capolinea. Si viaggia per necessità o per fortuna, o per sfortuna. Si viaggia per amore o per non morire o per morire. Si viaggia per cercare un posto dove stare e lo si fa perchè il posto c'è e non lo si vuole accettare. Si viaggia perchè si è stanchi di star fermi e lo si fa per stato di necessità. Si viaggia per leggere da soli, per stare un po da soli e per origliare un poco. Si viaggia per trovare sempre un motivo per viaggiare. Si viaggia per viaggiare.


© salvatore digennaro


giovedì 14 marzo 2013

L'ipermercato



Quand'ero piccolo c'erano in giro per il paesello piccoli negozietti, empori di merce ammassata che servivano i beni di prima necessità ad ogni singolo rione. E solitamente avevano nomi umani, che riportavano alla mera proprietà dell'esercizio: si chiamavano Angelina, o Nenetta, o Margherita, o ancora nomignoli, per di più soprannomi. Ci si conosceva tutti, la salumaia, che era anche cassiera e addetta alle pulizie, chiamava per nome i clienti e sovente capitava che la mamma telefonava, ordinava e magari io passavo solo a prendere la spesa. Poi vennero i supermarket, più forniti, col personale in divisa, e iniziarono a chiudersi le bottegucce. E con essi le prime raccolte punti, e i carrelli, e le offerte. E già la poesia di andare, incontrare, parlare, iniziava a latitare. L'altro giorno mi han portato a fare una passeggiata in un ipermercato. Stipati come sardine in una scatola di latta abbacinante una domenica di carnevale. La gente sorrideva e spendeva, abbagliata dalle lucine, i bambini vestiti a maschera strisciavano tra i coriandoli per terra e urlavano, falsi brasiliani si producevano in falsi samba, e non mi son mai sentito così solo, e c'erano migliaia di persone. Ho preso il ricordo atavico degli odori del piccolo alimentari della mia infanzia e l'ho stretto a me come ossigeno per non impazzire, mi son lasciato la bolgia festante e spendente alle spalle. Mezzora di centro commerciale e poi la fuga, l'aria. Non so come può essere l'inferno, ma credo di esser sopravvissuto alla cosa che più gli somiglia. Mancano solo i codici a barre per i clienti. Ma ci stiamo lavorando.


© salvatore digennaro


mercoledì 13 marzo 2013

Amarcord

E alla fine si metteva su un vinile e ci si lasciava andare alla musica per 23 minuti, tanto durava un lato più o meno, ci si lasciava attraversare dalle note finché terminati i solchi, la puntina graffiava e griffava il 33 giri, ruvidamente, fino all'etichetta, fin quando meccanicamente ritornava al posto, il piatto si fermava e cominciava la spasmodica attesa d'un volontario che girasse il disco, facesse ripartire il viaggio, per manco mezzora di preghiera laica. Poi arrivò il cd, poi l'mp3, e la poesia s'arenò. Il telecomando aveva otto tastini con i numeri, il volume, la luminosità, il contrasto, il colore, il tasto verde per il mute e quello rosso che spegneva, e s'accendeva con un numero qualsiasi, che non lo era quasi mai qualsiasi, e a parte qualche partita, qualche film, qualche cartone o qualche programma illuminato, od il tg o i telefilm, e di mondezza ce n'era ancora poca. Poi arrivò il televideo, e poi le De Filippi varie e poi ancora il digitale, terrestre e extraterreste, ed anche li, ammesso ce ne fosse, la poesia finì. E per sentire una ragazza, e magari uscirci, dovevi chiamarla a casa, da casa tua o dal telefono a gettoni o a scheda, e magari riattaccavi se ti rispondevano la mamma o il padre, o assoldavi un amica per chiamarla e poi te la facevi passare. E se poi ci si vedeva, era una meraviglia andar per campi, e, senza nessuno che potesse disturbarti, magari col freddo di dicembre e l'afa di agosto del tipo “o sauna o zanzare”, respirar poesia. Ma poi arrivarono i telefonini, e il web, e i social network, e la cyberpoesia non ha la stessa intensità, e soprattutto sul piu' bello qualcuno mandato dagli dei a romperti i coglioni all'improvviso tecnologicamente appare, qualcosa squilla o trilla. Manco un attimo da soli, da solo, a dettare i tempi solo tuoi o forse “Sei solo. Non lo sa nessuno. Taci e fingi” , come diceva il buon Pessoa.


© salvatore digennaro


l'infine

L'infine Affonderemo danzando, come la sala da ballo del Titanic  o creperemo testando improbabili ricette. Berremo la cicut...