giovedì 14 marzo 2013

L'ipermercato



Quand'ero piccolo c'erano in giro per il paesello piccoli negozietti, empori di merce ammassata che servivano i beni di prima necessità ad ogni singolo rione. E solitamente avevano nomi umani, che riportavano alla mera proprietà dell'esercizio: si chiamavano Angelina, o Nenetta, o Margherita, o ancora nomignoli, per di più soprannomi. Ci si conosceva tutti, la salumaia, che era anche cassiera e addetta alle pulizie, chiamava per nome i clienti e sovente capitava che la mamma telefonava, ordinava e magari io passavo solo a prendere la spesa. Poi vennero i supermarket, più forniti, col personale in divisa, e iniziarono a chiudersi le bottegucce. E con essi le prime raccolte punti, e i carrelli, e le offerte. E già la poesia di andare, incontrare, parlare, iniziava a latitare. L'altro giorno mi han portato a fare una passeggiata in un ipermercato. Stipati come sardine in una scatola di latta abbacinante una domenica di carnevale. La gente sorrideva e spendeva, abbagliata dalle lucine, i bambini vestiti a maschera strisciavano tra i coriandoli per terra e urlavano, falsi brasiliani si producevano in falsi samba, e non mi son mai sentito così solo, e c'erano migliaia di persone. Ho preso il ricordo atavico degli odori del piccolo alimentari della mia infanzia e l'ho stretto a me come ossigeno per non impazzire, mi son lasciato la bolgia festante e spendente alle spalle. Mezzora di centro commerciale e poi la fuga, l'aria. Non so come può essere l'inferno, ma credo di esser sopravvissuto alla cosa che più gli somiglia. Mancano solo i codici a barre per i clienti. Ma ci stiamo lavorando.


© salvatore digennaro


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