mercoledì 13 marzo 2013

Amarcord

E alla fine si metteva su un vinile e ci si lasciava andare alla musica per 23 minuti, tanto durava un lato più o meno, ci si lasciava attraversare dalle note finché terminati i solchi, la puntina graffiava e griffava il 33 giri, ruvidamente, fino all'etichetta, fin quando meccanicamente ritornava al posto, il piatto si fermava e cominciava la spasmodica attesa d'un volontario che girasse il disco, facesse ripartire il viaggio, per manco mezzora di preghiera laica. Poi arrivò il cd, poi l'mp3, e la poesia s'arenò. Il telecomando aveva otto tastini con i numeri, il volume, la luminosità, il contrasto, il colore, il tasto verde per il mute e quello rosso che spegneva, e s'accendeva con un numero qualsiasi, che non lo era quasi mai qualsiasi, e a parte qualche partita, qualche film, qualche cartone o qualche programma illuminato, od il tg o i telefilm, e di mondezza ce n'era ancora poca. Poi arrivò il televideo, e poi le De Filippi varie e poi ancora il digitale, terrestre e extraterreste, ed anche li, ammesso ce ne fosse, la poesia finì. E per sentire una ragazza, e magari uscirci, dovevi chiamarla a casa, da casa tua o dal telefono a gettoni o a scheda, e magari riattaccavi se ti rispondevano la mamma o il padre, o assoldavi un amica per chiamarla e poi te la facevi passare. E se poi ci si vedeva, era una meraviglia andar per campi, e, senza nessuno che potesse disturbarti, magari col freddo di dicembre e l'afa di agosto del tipo “o sauna o zanzare”, respirar poesia. Ma poi arrivarono i telefonini, e il web, e i social network, e la cyberpoesia non ha la stessa intensità, e soprattutto sul piu' bello qualcuno mandato dagli dei a romperti i coglioni all'improvviso tecnologicamente appare, qualcosa squilla o trilla. Manco un attimo da soli, da solo, a dettare i tempi solo tuoi o forse “Sei solo. Non lo sa nessuno. Taci e fingi” , come diceva il buon Pessoa.


© salvatore digennaro


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